Giusta retribuzione e salario minimo: la via dei contratti collettivi per una giusta remunerazione dei lavoratori

di Michele De Bacco, Consulente del Lavoro e socio fondatore di Data Impresa Srl Stp

Negli ultimi tempi il dibattito sull’istituzione di un salario minimo ha acceso gli animi tra i lavoratori, sollevando la domanda cruciale: salario minimo sì o no? Forse è il momento di esaminare più da vicino l’approccio alla retribuzione, cercando soluzioni che rispecchino veramente l’impegno dei lavoratori e contrastino il declino del potere d’acquisto dei salari.

Salario minimo sì o no?

La questione fondamentale, prima di affrontare il tema del salario minimo, riguarda la definizione di “lavoratore subordinato” e “retribuzione giusta”.

Ma partiamo dal principio: chi è il lavoratore subordinato?

L’articolo 2094 del Codice civile definisce lavoratore subordinato colui il quale si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore.
Siamo quindi di fronte al classico “scambio” fra una prestazione lavorativa resa da un lavoratore e la corrispondente retribuzione che gli è dovuta.

Passando alla definizione di retribuzione giusta, secondo l’articolo 36 della Costituzione, ogni lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, in grado di garantire un’esistenza libera e dignitosa per sé e la sua famiglia.

I criteri per determinare la giusta retribuzione, quelli applicati dal giudice in caso di contenzioso, esistono e sono delineati nell’art. 39 della nostra Costituzione, la quale definisce le procedure che, se applicate correttamente, consentirebbero a tutti i lavoratori di vedersi applicare contratti collettivi di rango nazionale, adeguati sotto il profilo retributivo.

In base alla procedura dell’articolo 39 della Costituzione, i sindacati che avessero dimostrato di avere “un ordinamento interno a base democratica” si sarebbero potuti registrare “presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge” , acquisendo così quella “personalità giuridica” di diritto pubblico in forza della quale, “rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti”, avrebbero potuto “stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. Tali contratti collettivi, quindi, sarebbero stati efficaci non solo per i lavoratori iscritti ai sindacati, ma per tutti i lavoratori di categoria, inclusi quelli non iscritti ad alcun sindacato.

Tale meccanismo è rimasto inattuato e ha visto i sindacati sottrarsi ad una registrazione che avrebbe garantito una democrazia interna effettiva. Le ragioni sono molteplici: la scelta dei maggiori sindacati di non registrarsi per non sottoporsi ai controlli statali sulla loro effettiva democrazia interna; l’opposizione dei sindacati minori preoccupati di una penalizzazione rispetto alle sigle maggiori; il rifiuto di un meccanismo che avrebbe consentito ad un organo amministrativo di verificare l’effettiva consistenza numerica e, di conseguenza, la rappresentanza dei sindacati in base ai loro iscritti.

Come conseguenza diretta, i contratti collettivi di lavoro stipulati oggi dai sindacati sotto il profilo civilistico valgono solo per i loro iscritti.
Per sopperire alla mancata attuazione dell’art. 39 si è cercato in un primo momento di recepire, attraverso decreti legislativi, i contenuti “minimi inderogabili di trattamento economico e normativo” dei contratti collettivi di lavoro (la cosiddetta Legge Vigorelli) ma tale soluzione legislativa è stata bocciata dalla Corte costituzionale soprattutto perché andava a ledere l’autonomia contrattuale dei sindacati.

Sono stati pertanto i giudici a stabilire che le condizioni retributive e normative fissate nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi dovevano essere estese a tutti i lavoratori di categoria perché si identificassero con la “giusta retribuzione” di cui all’art. 36 della Costituzione, secondo cui essa deve essere “proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare” al lavoratore e alla sua famiglia “un’esistenza libera e dignitosa”. Dunque, il lavoratore non sindacalizzato cui fossero applicate condizioni peggiorative rispetto a quelle stabilite dal contratto di lavoro di categoria potrebbe ottenerne l’annullamento dal giudice.

La contrattazione collettiva

Attualmente il sistema è in crisi, con la proliferazione di contratti di lavoro pirata e la comparsa di nuovi lavori nella gig economy. La direttiva dell’UE del 25 ottobre 2022 ha sollecitato una riflessione su questo problema, indicando sia il salario minimo per legge che la contrattazione collettiva come possibili soluzioni.

Personalmente, credo che affrontare il tema retributivo riducendolo all’istituzione per Legge di un salario minimo non risolverà l’annoso problema di salari che non si adeguano al costo della vita e non rispecchiano l’impegno dei lavoratori.

La contrattazione collettiva, anche in ambito comunitario, è ritenuta preferibile perché conduce a salari minimi più elevati e, soprattutto in quei paesi come l’Italia con profonde divergenze Nord – Sud, consentirebbe di rispondere con più efficacia ai diversi bisogni territoriali dei lavoratori ed eviterebbe che, in caso di salari minimi per legge elevati, ciò che è minimo al Nord non lo sia al Sud dove il costo della vita è inferiore finendo con l’incentivare il lavoro nero.

Il recupero dei contratti collettivi di categoria previsti dall’art. 39 Cost. consentirebbe dunque in un colpo solo di risolvere tre problemi: la misura della rappresentatività sindacale; la tutela dei lavoratori non sindacalizzati; l’individuazione del salario minimo.

È il momento di affrontare la questione della retribuzione con una prospettiva più ampia e rispettosa della nostra Costituzione: recuperare il meccanismo della contrattazione collettiva previsto dall’art. 39 potrebbe essere la chiave per risolvere i problemi reali dei lavoratori, andando oltre le battaglie politiche di bandiera e centrando l’obiettivo di garantire a tutti un’esistenza libera e dignitosa.

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